Recensione a “Auga a través” di Dores Tembrás
La poesia come memoria storica: Auga a través (Apiario, 2016) di Dores Tembrás
Nel 1992, dopo due anni dalla fine della costruzione della diga portoghese del Lindoso decisa molti anni prima da un accordo siglato da Franco e Salazar, le acque ricoprono le vallate della Limia Baixa, portandosi via le storie e i paesaggi di alcuni paesini della parte meridionale della provincia di Ourense. Vent’anni dopo, nel 2012, i resti di uno di questi paesi sommersi, Aceredo, riemergono a causa della scarsità d’acqua. Nel 2015 César Souto e Louis Avilés raccolgono nel loro documentario Os días afogados le testimonianze materiali e verbali di chi quell’esperienza di sradicamento l’aveva vissuta in prima persona. Nell’autunno del 2016 Dores Tembrás rielabora poeticamente in una stupenda plaquette – ormai non più una novità per le rifinite pubblicazioni artigianali di Apiario – la sua visione attraverso l’acqua degli eventi, per riportare le sensazioni della “anguria das xemas / percorrendo as portas acaroadas” (“angustia del tatto / percorrendo le porte accostate” e, più in generale, di “todas as perdas” (“tutte le perdite”).
Auga a través è la scrittura che si fa corpo, “si sostiene nella ferita” della storia, intesa come trafila di accadimenti occorsi per oltre vent’anni, una ferita che non può né deve rimarginarsi. È l’ossessione – accompagnata dalla musica del Liberetto di Lars Danielsson – per questa ricerca, la “adicción á memoria” (“la dipendenza dalla memoria”), l’unica cosa che si salva. Il paese riemerso d’altronde riaffonderà appena le piogge cadranno nuovamente copiose. “Salvar a aldea” (“salvare il paese”) sarà l’“uso do plural” che commuove, nella consapevolezza comune degli abitanti “non hai terra mítica / a extinción daquel tempo / non devirá en lenda” (“non esiste terra mitica / l’estinzione di quel tempo / non diventerà leggenda”).
La breve raccolta non disseziona solo i luoghi del passaggio dell’acqua, ma il modo in cui è penetrata nelle vite delle persone e nel paesaggio attraverso un’altra opera umana, “metros cúbicos de nada” (“metri cubici di nulla”). Nelle testimonianze a presa diretta dei protagonisti di ieri e di oggi, sottolineate nel corsivo delle loro parole, i racconti, i pianti, le preghiere si configurano come una scintilla di “un bicchiere rotto”, di una storia rotta, il cui spartiacque si rintraccia nella data-componimento “8-2-1992”.
[…]
cando a imaxe
deturpa a realidade
o poema non admite
engano nin reliquias
toda a resistencia
non permitirá que volvas
auga a través
por moita luz
que deixarás prendida
Quando l’immagine
deturpa la realtà
la poesia non ammette
inganni né reliquie
qualsiasi resistenza
non permetterà il ritorno
attraverso l’acqua
nonostante la luce
che lascerai accesa
Le esternazioni umane soccombono al tempo umano e la speranza di resistervi è vana come lo è lo sforzo di “fechar a porta con chave / para que non entre a auga” (“chiudere la porta a chiave / perché non entri l’acqua”) o l’attesa di qualsiasi poeta come di “un encabalgamento / cando só hai final de poema” (“un’inarcatura / quando c’è solo la fine della poesia”. Nell’ “epilogo”, il riaffiorare delle pietre coincide con la presa di coscienza che sono solo esse – non gli uomini, “metafore morte” – ad avere “a última palabra / vinte anos despois” (“l’ultima parola / dopo vent’anni”).
Con questo libro, dopo i successi dei precedenti, su tutti Cronoloxía da urxencia (2014), Dores Tembrás si riafferma come autrice attenta al tema della memoria, alla testimonianza che i documenti delle cose e delle persone lasciano, dove la poesia è allo stesso tempo un metro di comparazione metaletterario delle circostanze narrate e un mezzo per selezionare in modo preciso il materiale verbale con cui offrire il proprio contributo letterario per l’archivio storico dei lettori.
Marco Paone